Paolo Cognetti dopo i ricoveri in psichiatria: «È stata la mia compagna a insistere per andare in pronto soccorso, “tu stai delirando”, diceva»

Lo scrittore Cognetti racconta la depressione e il Tso: «I pensieri di suicidio erano frequenti. Da poco ho avvertito un’illuminazione»

La depressione, «restavo nella mia baita a guardare il soffitto, qualcuno provava a trascinarmi fuori, ma non mi importava più di niente, non c’era più amore né per mia madre e mio padre che erano lì ad accudirmi, né per il mio cane Lucky: il mio cuore era inaridito»; i pensieri di suicidio «erano all’ordine del giorno: la corda ce l’ho, la trave ce l’ho, devo capire come salire sulla sedia»; l’alcolismo «per lasciare la compagna con cui stavo da 12 anni c’è voluto tutto il mio coraggio e anche un bel po’ di alcol.

Ho vissuto da alcolista duro e puro: dal caffè corretto alle 8 di mattina all’ultimo whisky all’1 di notte, passavo tutto il giorno a bere, finché mi sono sbattuto fuori casa da solo». Il tradimento della sua montagna, «dopo l’ultimo libro, Giù nella valle, sono diventato il nemico: a Brusson, dove ho la baita, un bel po’ di gente si gira dall’altra parte quando passo.

È uscito da poco il mio documentario Fiore mio, ambientato proprio in quelle valli: sta avendo successo, piace a tutti, ma da Brusson non mi arriva neanche mezzo segnale di grazie, niente, zero».

Paolo Cognetti dopo i ricoveri in psichiatria: «È stata la mia compagna a insistere  per andare in pronto soccorso, “tu stai delirando”, diceva» | Corriere.it

Lo scrittore premio Strega Paolo Cognetti, 46 anni, è seduto al tavolino di un bar in via Sarpi, a Milano. È dimagrito, ha tagliato la barba e tinto i capelli di un rosso tiziano che non è il suo. «Sì, ho sbagliato colore — ammette — cercherò di trovarne uno più simile al mio naturale».

Torna a parlare — lui che ai suoi lettori appariva così granitico, così saggio e risolto, uno che aveva imparato a vivere da solo e che sapeva guardarsi dentro — del suo anno difficilissimo, che si è aperto e chiuso con due ricoveri nel reparto di psichiatria del Fatebenefratelli di Milano, in trattamento sanitario obbligatorio a causa di «una grave depressione sfociata in una sindrome bipolare con fasi maniacali».

«Non avevo mai sofferto prima di depressione — dice —. Periodi di grande tristezza, di noia esistenziale sì, ma niente di simile a quello che è successo dopo».

«Con la mia compagna avevo un rapporto molto stretto, legato anche al cibo: lei ha problemi nella digestione degli alimenti e io sono sempre stato lo chef di casa, mi sono sempre occupato della sua alimentazione. Lasciarla per me significava anche smettere di prendermene cura ed era una cosa estremamente difficile. Mi sono innamorato di un’altra donna, ma quest’altra relazione è difficile, è un rapporto nascente con una persona complicata, che ogni tanto mi vuole e ogni tanto non mi vuole. In questo periodo, per esempio, non mi vuole. Ma non è tanto questo il punto: sento il bisogno di vivere libero, non per fare sesso in giro – ho provato, ma non mi interessa, il sesso è una cosa troppo intensa perché sia occasionale -, libero di andarmene in Nepal il mese prossimo, poi in Marocco, libero di dormire sul divano di un’amica, se capita. Ho capito che la vita che voglio, perché davvero mi assomigli, è questa. Bisogna stare soli per poter vivere cosi».

Ripercorre gli ultimi mesi. «Per qualche tempo ho smesso di bere, ma poi mi sono detto: se sto così male, anche se ricomincio non potrà andare peggio, giusto? Ho ripreso e mi sono sentito meglio, ho recuperato energia e allegria, ma per il mio psichiatra stavo solo entrando in una nuova fase maniacale. Nella sindrome bipolare c’è la fase depressiva e la fase maniacale: la fase depressiva fa schifo, nella fase maniacale hai mille idee al secondo, scriveresti dieci libri, e io ci sono ancora dentro. Ho detto allo psichiatra che non era urgente vederci, ho saltato una visita e mi sono trovato la polizia e l’ambulanza sotto casa. Mi sono seduto per terra: se mi volete, ho detto, dovete portarmi via di peso, sulle mie gambe non vengo. Mi hanno sollevato e portato al Fatebenfratelli. Lì mi hanno detto: devi firmare per l‘accettazione delle cure. Io non ho firmato ed è scattato il Tso, che deve essere firmato anche dal sindaco, anche se a Milano c’è un delegato per queste cose. Da lì ho fatto due settimane in un regime che potrei definire carcerario. Nel reparto c’è un lungo corridoio su cui si affacciano camere da un lato e dall’altro, una ventina di pazienti, non c’è un cortile, un terrazzo, c’è una stanzetta fumatori dove ci si accalca sotto una cappa di fumo, ti danno medicine, fondamentalmente sedativi e tranquillanti. Ho passato due settimane così. Non ce la facevo più a stare rinchiuso, non ho neanche mai avuto un lavoro d’ufficio per non essere costretto a stare fermo in un posto».

Quelle due settimane sono servite? «Sì, a non essere più perseguitato. Adesso vado a casa e non rischio di trovare la polizia davanti al portone».

Le foto di lei nudo inviate agli amici? «È stato un periodo in cui ho dovuto distinguere gli amici dai nemici. Una persona come me, per via della notorietà, ha un sacco di falsi amici e scoprire quelli veri non è facile, a volte li devi sottoporre a delle prove. Quindi mandare delle oscenità o dei vaffanculo mi è servito a capire se una persona mi vuole bene, e ci passa sopra, o se si offende, e allora può andare a quel paese. Soldi regalati? Ne vado molto fiero: è successo con tre persone, amici che avevano grande bisogno».

Quindi atti intenzionali, non «cose da matto»? «Ho fatto alcune cose da matto, tipo non dormire per tre giorni di fila perché non avevo mai sonno e questa in psichiatria è una cosa gravissima. Avevo e forse ce l’ho ancora, una grossa aggressività, se ne sono accorti anche i miei amici, ho un modo molto aggressivo di parlare, dico tante parolacce, ma quello mi è sempre piaciuto».

Quando, a metà novembre, per «7» ha fatto l’intervista di copertina a Cesare Cremonini, sembrava ci fosse una bella intesa fra voi: ha chiuso l’intervista invitandolo a vedere insieme Juve-Bologna, il 7 dicembre. Ma la sua vita ha preso tutta un’altra piega e il 3 è entrato in psichiatria. «Già, ma Cesare è sempre così impegnato. Però sono riuscito a costruirmi almeno quattro amicizie solide, importanti: con Vasco Brondi, con cui condivido questa cosa strana che è la fama, entrambi la soffriamo e ci raccontiamo come gestirla. Poi ci sono Francesca e Marta, due mie grandissime amiche e infine c’è Remigio. Sono fratelli e sorelle, persone di fiducia totale».

Il primo Tso a gennaio, «ho fatto una denuncia su questo. Ero in fase maniacale, sparlavo. Ero a casa con la mia compagna e lei mi ha detto: sono molto preoccupata per te, stai delirando. Va bene, le ho risposto, ma siamo a casa nostra, non faccio del male a nessuno, sono seduto sul divano, posso delirare in pace sul mio divano? Lei ha insistito, voleva andare al pronto soccorso e ho accettato per tranquillizzarla. Mano nella mano, ci rechiamo al Fatebenefratelli. Ho mezz’ora di colloquio con una dottoressa. La quarta volta che mi ripete la stessa domanda, ho detto basta: sono entrato qui con le mie gambe e sulle mie gambe me ne vado. Faccio qualche passo per avvicinarmi all’uscita e mi circondano in sette. Ho detto di non toccarmi. Faccio un altro passo verso l’uscita e mi sollevano, mi legano, mi fanno un’iniezione. Quella volta però è durata poco: è arrivata mia sorella, ha insistito per portarmi a casa, la mattina mi sono svegliato nel mio letto. Dovevano identificarsi e non l’hanno fatto, dovevano dichiarare il farmaco che mi hanno somministrato e non l’hanno fatto: per questo ho presentato denuncia. Ora ho scelto un nuovo psichiatra di cui ho molta fiducia. Ma io in questo momento sto bene: sono sempre stato una persona iperattiva, veloce, irrequieta, impaziente, forza dai andiamo, siete lenti…».

Però, ha detto, il bosco non mi parla più… «Questa era una cosa della depressione. Invece di guardare il soffitto della baita uscivo nel bosco, ma poi mi sedevo contro un albero e non sentivo niente. Ci sono tornato in montagna qualche giorno prima del Tso di inizio dicembre perché volevo fare pace con la mia valle. C’era un po’ di neve, ho visto che le cose erano cambiate, sono stato fuori a guardare le stelle, la luna, avevo di nuovo dei sentimenti verso quel posto. Ma nella depressione non provavo più nulla, mi spiaceva persino per Lucky: questo cane vive con me da 12 anni, lo guardavo e non me ne importava niente, era incredibile, io gli voglio un bene infinito. In quel periodo ho vissuto l’annullamento dell’amore».

Ha il progetto di tornare in Nepal. «Vorrei fare il terzo capitolo della trilogia dei documentari, dopo Sogni di Grande nord e Fiore mio vorrei seguire in Nepal la vita e il lavoro di un amico sherpa. La prendo con calma, per ora faccio un sopralluogo. Però sarà bellissimo. E poi ho iniziato un nuovo libro l’altro ieri al manicomio che mi sembra una buona idea. Ho da fare».

E i nuovi capelli rossi? «Fra il 24 e il 27 novembre, che sono due giorni importanti per me perché compiono gli anni due cari amici, ho sentito che si stava verificando un cambiamento interiore. Una sorta di illuminazione buddista: l’illuminazione non è solo una, ce ne sono diverse, è come una scala che sale. Mi è sembrato di vivere la prima. E allora dovevo fare qualcosa anche al mio corpo, per mostrare che ero nuovo: mi sono tagliato la barba e tinto i capelli (il colore giusto lo devo ancora trovare). Questo perché gli altri vedendomi pensino: ma cosa è successo a Paolo? È cambiato qualcosa?».

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